Daniele Del Giudice (scrittore)
in conversazione con Riccardo Giacconi
2007
pubblicato nella rivista Segnal'etica
ripubblicato nel 2021 su Doppiozero
[Venezia, 2007]
Nell'ultimo Festival della letteratura di Mantova ha dialogato con lo scrittore Enrique Vila-Matas, con il quale si è confrontato sul tema “il mestiere di scrivere”. Cos'è il “mestiere di scrivere”?
Daniele Del Giudice: Il mestiere di scrivere per me non è un mestiere; sostanzialmente io non ho mai preso la scrittura come un mestiere. Anche se poi, in realtà, i miei redditi vengono da quello. Non lo penso come un mestiere non perché ci sia – per l’amor di Dio – un’ispirazione o qualcos’altro di astratto, solo che per me scrivere è un modo di vivere prima ancora che un lavoro. È una passione – il leggere, prima ancora dello scrivere. Io ho letto molto fin da quando ero bambino. Quando avevo undici anni, mi sono fatto un mio mondo, che non immaginavo certo di usare come lavoro. Era un mondo parallelo, di immagini e di racconti. Prima di morire, mio padre mi fece due regali: uno era una macchina da scrivere, una enorme Underwood americana con la tastiera italiana; l’altro era una Bianchi 28, una bicicletta. Invece di andare a scuola, andavo con la bicicletta sulla statale Appia, e giravo i colli attorno a Roma. Tornavo a casa, e di pomeriggio mi mettevo la custodia della Underwood sotto il culo, e scrivevo con due dita (come faccio tuttora). Non pensavo fosse una scrittura, per me era la macchina da scrivere che faceva le storie. Quando vedi un foglio stampato a macchina, già senti che c’è qualcosa.
Quindi ha sempre scritto dattilografando?
Sì. Cioè, ho ovviamente dei taccuini, però abitualmente scrivo a macchina. Non riesco a scrivere a mano, ho dei miei amici che lo fanno, ma io ho proprio bisogno del meccanismo, della meccanica. Infatti ho sofferto molto il passaggio al computer, perché la macchina da scrivere ha un suono stupendo.
Tornando al “mestiere di scrivere”, mi viene in mente Flaubert, per il quale ogni parola scritta era una sofferenza.
I grandi scrittori sono veramente deboli da un certo punto di vista. Basta leggere le lettere che Conrad scrive a Garnett: “ho forse scritto il finale del libro: è una catastrofe”.
Proprio i migliori non hanno fiducia in se stessi. Io non ho nessuna fiducia in me, non sono mai contento, su una frase posso starci cinque ore, poi rileggerla e dire “ma che cazzo di schifezza che ho fatto!”. Invidio i pittori: anche loro buttano via tele, ma per loro c’è un movimento, una fisicità; hanno una materia.
Ne conosce di scrittori dal “tratto facile”?
Io non ne ho mai visti. Anche Calvino, che ho frequentato, era molto diffidente di sé, eppure è stato una figura straordinaria.
Ha scritto il suo primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon, nel 1983, a 34 anni. La storia, che si svolge tra Londra e Trieste, è incentrata su Roberto Bazlen, che rinuncia alla scrittura in favore della vita. Niente più “mestiere di scrivere”, dunque. C’è, allora, un “mestiere della vita”, più importante per sé e per gli altri?
Questo l’ho attraversato in un altro romanzo, che si intitola Staccando l’ombra da terra ed è tutto sul volo. Nel 1987 ho preso i miei brevetti aeronautici. Pilotare l’aereo mi piace moltissimo, perché è una cosa complessa ma governabile. Se fai le cose che devi fare esattamente, l’aereo è lì per volare. In aereo sai cosa devi muovere, cosa devi guardare, poi parli in cuffia con la base: insomma sai quali sono le manovre. Magari fosse così la vita! La vita è molto molto molto più complicata del pilotaggio di un aeroplano. Non ci sono le manovre esatte, le procedure. Si va ad intuito.
“Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano”. Questo dice Marco Polo a Kublai Kan in Le città invisibili di Italo Calvino. Lei una volta mi ha detto che prima di scrivere Staccando l’ombra da terra ci ha pensato molto; che certe esperienze della vita non vanno raccontate. È il timore di perdere qualcosa rendendo discreto il continuo?
Certo. Io non volevo raccontare il volo, perché il volo era per me di una bellezza infinita, e me ne sbattevo totalmente di mettermi a scrivere un romanzo su di esso. Poi le cose andarono diversamente. Avevo una amicizia con Federico Fellini, che mi aveva cercato in un pomeriggio di agosto dopo aver letto Nel museo di Reims. Sentii questa vocina al telefono, che mi diceva “Sono Federico Fellini”. C’erano ventotto, trenta gradi. Ero in mutande. Pensai: “Oddio, mi parla Fellini e sono in mutande”. Così è nata un’amicizia, quando ero a Roma lo andavo a trovare. Una delle ultime volte, mi disse che faceva fatica a trovare dei produttori, ed era abbastanza depresso. Mi chiese se volavo ancora, e allora mi misi a raccontargli le mie avventure di volo: gli errori e gli sbagli che si fanno, quando ti perdi nelle nuvole. Lui man mano sembrava riprendersi dalla sua malinconia. Alla fine, quando stavamo salutandoci alla porta, mi disse di mettere da parte qualunque cosa su cui stessi lavorando, e di scrivere subito quello che gli avevo raccontato. Io, diffidente e senza grandi slanci, mi resi conto solo il giorno dopo che Federico aveva visto un libro che io non volevo vedere, talmente pieno com’ero della gioia del volo. Ho cominciato, e alla decima riga ho telefonato a Fellini dicendogli che aveva ragione.
Se non sbaglio, il suo ultimo libro è stato Canto per Ustica, un testo teatrale scritto insieme a Marco Paolini nel 2000. Siamo nel 2007: vuol dare ragione al suo primo personaggio, cioè a Roberto Bazlen?
No! [ride] Per cinque anni qui a Venezia ho organizzato una specie di festival che si chiamava Fondamenta. Ogni volta vi era un tema, e questo tema era trattato attraverso tutte le conoscenze. Ho fatto venire a Venezia tante persone di qualità, da Nobel a giovani intelligentissimi. Questo mi ha portato via tanto tempo.
[si alza, esce dalla stanza e torna, sorridente, con una pagina di rivista in mano] Però, proprio ieri in una réclame di questi inserti pubblicitari, ho visto questa pagina. [legge]
“Diciassette anni, tanto è durata l’attesa per leggere il seguito de «I pilastri della Terra». Finalmente è arrivato «Mondo senza fine», il ritorno di Ken Follett dopo diciassette anni!”
[ride] Io forse non sarò mai in grado di fare un romanzo come lo fa Ken Follett, però...
...possiamo aspettare un altro po’.
Posso aspettare un altro po’! Devo dire che anche mia moglie è così: “Ma quando finisci questo libro?”. E io non ho argomenti per controbattere! Lo so che ci sono dei buchi in una carriera di narrazione. Per esempio in Calvino: da Le città invisibili fino a Se una notte d’inverno un viaggiatore c’è un lasso di tempo notevole, praticamente sette anni. In mezzo c’è una commessa, Il castello dei destini incrociati. Per questo dico che non posso prendere la scrittura come un mestiere. Certo: potrei fare come Moravia, lavorare sempre e solo dalle otto del mattino a mezzogiorno, però io non riesco proprio a considerarlo un mestiere. Ripeto che sono lontano dall’idea dell’ispirazione. Secondo me l’ispirazione è quella dei polmoni [mima un respiro].
Ma ci sono dei momenti in cui non senti il bisogno, ci sono dei pantani, dei momenti di deserto. E anche il deserto è un elemento importante, dove tu non sei niente, non hai niente se non la solitudine e la sabbia. È una cosa molto frequente, soprattutto nei grandi scrittori. Il deserto procura una forza nuova. Non hai bisogno di fare un romanzo solo perché il tuo editore ti dice che sono passati cinque anni. Deve esserci una spinta, una scintilla. Tutti i miei libri sono fatti così. A farlo come mestiere si fa presto, c’è però da vedere quello che viene fuori.
La separazione fra autore e opera è stata l’oggetto dell’aspra critica mossa da Proust a Sainte-Beuve. Oggi sembra che, da una parte, l’opera sia in vantaggio sull’autore: pensiamo alla distribuzione via web, e al relativo “anonimato” degli autori, che vengono in qualche modo mascherati dal dispositivo. Dall’altra parte, sembra però che la fama sia un requisito sufficiente per poter mettere il proprio nome sulla copertina di un libro.
Questo è vero. Una volta c’era la critica letteraria. Adesso non c’è, anzi si svolge esattamente nella rete, dove ci sono dei siti dove tutti possono entrare e dire la propria. Secondo me oggi la crisi è proprio quella dei critici letterari, che sono un po’ messi da parte (cosa che invece non accade per quelli di cinema e arti visive). Forse perché non hanno trovato un metodo nuovo, diverso. Inoltre l’editoria è stata industrializzata. Una volta i Bompiani, gli Einaudi, i Garzanti pensavano a produrre dei libri buoni, importanti, selezionati; libri che poi avrebbero anche venduto, ma innanzitutto buoni. Lo scarto è avvenuto quando in editoria sono entrati i manager, che fra l’altro venivano da altri campi. Per dirla in maniera brutale: chi fa gli orologi deve fare gli orologi. Una volta erano gli editori che sceglievano, leggevano, annusavano, intuivano. Ed erano loro i proprietari, i fondatori: rischiavano, non avevano un budget. L’elemento di management è stato immesso negli anni Ottanta. I manager puntano solo ad alzare il tasso di vendite: le vedi le conseguenze. La fama, dicevamo. Oggi quelli che scrivono i libri poi vanno in televisione, e viceversa. Prendi Vespa. Lui si fa il suo talk show e poi ci mette anche il libro.
Allora vince Sainte-Beuve: l’autore è inseparabile dall’opera.
In realtà ci potrebbe essere una possibilità: del resto di libri buoni – italiani e stranieri – ce ne sono. C’è il caso Morselli, scrittore che negli anni Settanta aveva scritto quattro romanzi, tutti bocciati dalle case editrici. Morì senza vederli pubblicati, ma poi la Adelphi li pubblicò, e venne fuori un vero grande scrittore, diverso da tutti gli altri. La vera democrazia è Internet. Oggi il destino di Morselli sarebbe stato diverso. Oggi, se vuoi scrivere il tuo romanzo o le tue poesie, non devi far altro che scrivere, e mettere in rete. Puoi pubblicarti tutto quello che vuoi. Questa del poter dire è una delle enormi modificazioni che ha portato la rete: non hai bisogno di chiedere una pagina ad un giornale. [pausa]
C’è chi sceglie un suo pubblico. Io non ho scelto mai nessun pubblico. Quello che dovevo dire, e quello che vorrei ancora dire, lo faccio senza target, senza destinazione, non ho in mente un lettore specifico. Scrivo quello che posso, che so scrivere, e cerco di farlo il meno peggio. Non mi frega niente del target, ne posso fare a meno.
[…]
Il nostro Novecento non è propriamente un secolo da ricordare. È un secolo terribilmente drammatico, continuamente avvitato su se stesso, partendo da utopie che via via franavano e cadevano. Nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo, dopo l’homo faber è arrivato l’homo economicus. Pensavamo di avere grandi, grandissime figure etiche – e ce ne sono state – ma il secolo si è chiuso con l’uomo economico. In questo abbiamo appreso il modello americano, solo che gli americani sono corretti, te lo scrivono sulle banconote. E ti dicono che il loro modello lo difendono: “la mia moneta è il vero valore, e io lo difendo”. Noi invece vogliamo il denaro, ma non siamo capaci di avere l’economia come vero valore, ce ne vergogniamo. Ce ne vergogniamo in quanto siamo credenti, cristiani. La nostra ignavia ci porta ad essere sempre biformi, incoerenti. [pausa]
E poi, sostanzialmente, la parte più interessante di oggi è esattamente tutto il resto del mondo. Noi eurocentrici pensiamo di essere il centro di tutto, e poi scopriamo che i cinesi hanno un grande valore, un numero praticamente illimitato di esseri umani. Loro fanno il 9, il 10 per cento nella crescita del Pil, mentre noi europei sudiamo per fare l’1,29! [ride] Come siamo eurocentrici, come siamo ciechi! L’unica cosa a cui tengo molto in questo periodo sono proprio gli altri mondi, tutto il resto, tutto quanto è stato obbligato a restare fuori. Quello che chiamiamo “noi” sono un miliardo e mezzo di persone. Pensa, Riccardo, a tutti gli altri. Quella è la cosa su cui sto lavorando adesso. Noi stiamo qui a parlare di me, di te, e intanto c’è un mondo che sta cambiando. C’è un altro orizzonte.
Riguardo a questo nostro sistema che si sta sgretolando, la letteratura può fare qualcosa, avere un valore sociale e politico?
Assolutamente sì. L’uomo senza qualità di Musil è un libro fondamentale, perché in totale contemporaneità parla della disgregazione dell’impero austro-ungarico. Dentro questo romanzo c’è una storia parallela. La letteratura già parlava mentre le cose stavano accadendo.
Secondo Lei è già stato scritto un Uomo senza qualità del nostro tempo?
Può darsi che ci sia, ma non è detto che debba passare attraverso la letteratura. Forse è più veloce la televisione, forse è più veloce la rete. Nel Novecento, nonostante già ci fossero il cinema e la radio, la letteratura manteneva un suo posto importante: questi signori scrivevano quello che accadeva mentre accadeva. La televisione è utilissima, è una cosa formidabile. Hai questo brivido mentre stai cenando: vedere le persone che muoiono. Uomini e donne muoiono mentre ti stai sgranocchiando la coscia di un pollo. Quindi oggi non è detto che la letteratura sia lo strumento. Forse non lo è neanche il cinema.
Numerosi avvenimenti di questi anni inducono a ragionare sul fatto che la verità si afferma spesso sotto forma di “consenso mediatico”, a colpi di immagini. Qual è allora il ruolo del narratore contemporaneo?
Come un rabdomante, il narratore deve cercare il punto da cui poter partire, senza avere bisogno di una phantasia che non sia quella prodotta attualmente. A Second Life non mi ci sono neanche avvicinato, e del resto sta tramontando piuttosto rapidamente. Questo perché se c’è un mondo di finzione vuol dire che quello reale è come un titolo in banca che immediatamente si rivaluta. Più c’è l’immateriale e più il reale raddoppia il suo valore. Quando tu ti romperai i coglioni di stare attaccato ad un computer per otto ore, allora busserai ad una porta, e qualcuno ti riceverà, e tu lo (o la) toccherai e gli dirai “voglio parlare con te!”. Quello in cui viviamo oggi è il vero degrado, è l’uomo senza qualità. È la fine. E le fini finiscono. L’impero austriaco se n’è andato.
Non ho capito se Lei è ottimista o pessimista.
Io sono abbastanza ottimista, nel senso che alla fine mi sa che non se ne potrà più. Non puoi vivere in una cosa che non c’è, che non puoi toccare. Il tutto è stato messo in moto e piano piano se ne andrà. C’è anche il fatto che, se si è insinuata questa performance, significa che allora abbiamo bisogno di qualcosa di totalmente diverso: essere con gli altri, toccarli, amarli, starci a parlare. Negli anni Sessanta, Settanta e in parte ancora Ottanta, c’era un collante straordinario. La gente era in piazza, e non soltanto nelle manifestazioni. Dagli anni Novanta la gente ha iniziato a mettersi a casetta. Qui a Venezia però c’è ancora una struttura umana, un’atmosfera particolare. Io se voglio uscire esco, incontro le persone che conosco, quelle che non conosco potrei conoscerle... Che mi frega di Second Life? Che ci faccio? Il vero e l’umano sono il prodotto più costoso. E non costa niente.
Ho da poco letto Eros e civiltà di Marcuse, che suppongo sia stato uno dei testi base per quello che Lei chiamava il “collante straordinario” degli anni Sessanta e Settanta. Mi è molto piaciuto, ma l’ho letto come una bellissima fiction. Forse, anche il rapporto fra ideale e reale cambia col tempo.
Assolutamente sì. Certo, erano gli anni Sessanta, la guerra era finita da quindici anni. C’era Marcuse, un signore tedesco che aveva dato questo paradigma dell’amore libero, un modo di amare in forme non così irte di regole, non così sigillate nelle famiglie. E poi c’era il Vietnam, l’opposizione alla guerra. Era un momento di liberazione, i rapporti con gli altri erano cambiati, era un modo diverso di stare insieme. Certo, con un mondo ricco che può permetterselo. Però era una possibilità.
Nel novero dei libri di cui c’è bisogno oggi, oltre ad un nuovo Uomo senza qualità dovrebbe esserci un nuovo Eros e civiltà, quindi.
Sì, il fatto è che gli altri elementi in gioco arrivano sempre prima: si brucia un tema subito, senza poi seguirlo. Oggi l’importante è produrre, produrre, produrre, produrre. Invece ci vuole un momento. Per scrivere L’uomo senza qualità ci sono voluti quarant’anni. L’autore aveva tantissimi quaderni in un enorme armadio. Un giorno decide di aprire l’armadio, e comincia. Comincia con un inizio che è forse il più bell’inizio di libro che io abbia mai letto. [legge]
Sull'Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell'aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l'oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell'anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell'aria aveva la tensione massima, e l'umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po' antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d'agosto dell'anno 1913.
È geniale, perché Musil inizia il libro con il meteo del TG. È un incipit totalmente straordinario, come il libro, in cui vedi proprio lo sgretolarsi di un impero, che era un mondo. Questo, secondo me, è il romanzo più importante del primo Novecento.